La competitività sta tutta in un bollino

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3665589Basta scorrere le etichette che si alternano sullo scaffale di un supermercato per rendersi conto che le certificazioni sono molto di più di un semplice bollino: crescono le referenze biologiche, quelle equosolidali e senza glutine, carne e uova sfoggiano l’etichetta che ne dichiara la produzione senza uso di antibiotici, e poi abbondano le specialità dei territori Igp, Dop e Doc, e c’è anche il cibo che rispetta le tradizioni religiose: kosher e halal.
Tutto a prova di certificazione, test e ispezioni da parte degli organismi accreditati. Al reparto elettrodomestici si sente la stessa musica: armadi frigoriferi e lavatrici valutati in base alla classe energetica e quindi al risparmio in bolletta. E non cambia nell’area ricreativa: biciclette, elettriche e non, con telai e freni omologati, palloni da calcio prodotti con materiali atossici. Il mondo del business, dall’agroalimentare, ormai si è messo a norma.

E dopo aver abbracciato le varie sigle Iso, Uni e Sa, la classificazioni che verificano il rispetto di determinati standard di qualità, ora è la volta della certificazione come elemento distintivo e di competitività. Per ogni filiera infatti c’è un bollino specifico. Perché la certificazione, un tempo pratica per addetti ai lavori e destinata principalmente ai processi interni, è diventata agli occhi dei consumatori una garanzia di qualità sulla base della quale orientare i propri acquisti.
Secondo Transparency Market Research, nel mondo, il mercato dei controlli e dei test di conformità sta esplodendo. Oggi le aziende spendono circa 178 miliardi di dollari l’anno (oltre 2 miliardi di euro è valore del bollino in Italia), ma entro il 2024 il settore genererà ricavi per circa 285 miliardi.

Non tutti i bollini sono uguali. Ci sono le certificazioni obbligatorie, quelle regolamentate e volontarie.
Ad esempio, chi espone l’etichetta del biologico deve seguire processi produttivi specifici, zero pesticidi nel piatto per colture che non fanno uso di sostanze chimiche. Lo stesso vale per l’efficienza energetica degli edifici, e da oggi anche la staticità dei palazzi, come introdotto recentemente dal governo.

Sono invece certificazioni regolamentate quelle che seguono disciplinari comunitari o nazionali, come i marchi di qualità: Dop (Denominazione di origine protetta), Igp (Indicazione geografica protetta) e Stg (Specialità tradizionale garantita).

Si parla invece di certificazione volontaria quando l’adesione alla certificazione da parte del produttore è libera e segue regole e norme tecniche di derivazione privatistica. Tant’è che tutti sono a caccia del bollino. E non si tratta, almeno nella maggior parte dei casi, di operazioni di marketing.
Prendiamo il caso delle certificazioni ambientali come Ecolabel, che certifica prodotti e servizi con ridotto impatto ambientale o l’Emas che aiuta a migliorare le performance “green” di un’azienda. Oggi nel mondo ci sono 450 tipologie di certificazioni verdi, e se ne aggiungono una dozzina ogni anno.

Ebbene le imprese che possono fregiarsi di questi bollini viaggiano a tassi di crescita più sostenuti. Lo dimostra il rapporto “Certificare per competere” presentato da Fondazione Symbola e Cloros in merito alle imprese che hanno ottenuto certificazioni ambientali.
In piena crisi, tra il 2009 e il 2013, le aziende italiane certificate hanno visto i loro fatturati aumentare, mediamente, del 3,5%, quelle prive di certificazione del 2%: le certificazioni, secondo questo studio, portano in dote uno “spread” positivo di 1,5 punti percentuali. Va ancora meglio se parliamo di occupazione, dove lo spread arriva a 3,8 punti percentuali: le aziende certificate hanno visto crescere gli addetti del 4%, le altre dello 0,2%.
L’Italia, con oltre 24mila certificazioni è il secondo Paese al mondo per numero di certificati Iso 14001, che fissano i requisiti di gestione ambientale dei processi produttivi; il primo per numero di Dichiarazioni ambientali di prodotto, il terzo per le registrazioni Ecolabel ed Emas, il quinto Paese del G20 per certificazioni forestali di catena di custodia Fsc.

I prodotti certificati della filiera agroalimentare, quando imboccano la strada dell’export, viaggiano a velocità più sostenuta. L’Italia è leader mondiale per numero di Dop e Igp, con 814 prodotti della filiera enogastronomica, e genera un giro d’affari pari a 13,8 miliardi di euro di valore della produzione, per una crescita del 2,6% del fatturato annuo e un peso del 10% sul totale dell’agroalimentare nazionale. Se guardiamo alle esportazioni i valori raddoppiano. Igp e Dop valgono il 21% dell’export per un fatturato complessivo di 7,8 miliardi di euro.

Secondo il report del Censis sulla filiera agroalimentare italiana, le imprese certificate durante gli anni della crisi hanno incrementato la quota di fatturato per export di 9 punti percentuali, passando dal 27% del 2007 al 36% nel 2014, e quella imputabile direttamente ai prodotti certificati al 70.
Per l’84% delle imprese, le certificazioni possedute hanno permesso di migliorare la reputazione aziendale.

Il risultato è che oggi l’Italia si rivela tra i primi paesi al mondo per la sicurezza alimentare: solo lo 0,4% dei prodotti controllati presenta residui chimici oltre il limite, contro una media europea dell’1,5% e mondiale del 7,9%. Dagli alimentari all’ elettronica , si prevede che il mercato delle certificazioni raggiungerà quota 350 miliardi nel 2024.

(Fonte: http://www.repubblica.it)