Conoscenza. Competenze. Formazione. Strumenti necessari per favorire la competitività.

Di strada ne è stata percorsa molta. Dalle anticipatrici iniziative di Adriano Olivetti negli anni Cinquanta ai più recenti paradigmi di learning society e di lifelong learning, “formazione” e “apprendimento” sono diventati, anche nell’ambito dell’impresa, dei pilastri sui quali fondare le strategie aziendali.

La conoscenza, le competenze e il loro ininterrotto e dinamico aggiornamento diventano strumenti essenziali per affrontare una realtà in continua – soprattutto – rapida trasformazione.

Una questione che, in questi ultimi anni, è diventata ancora più di attualità considerando la rivoluzione 4.0, segnata dall’irrompere della digitalizzazione e della connettività nei processi produttivi, e in generale, nel mondo delle imprese.

Le competenze, come mai prima, possono divenire il fattore determinante in grado di decretare il successo di un’azienda. O in loro assenza o in presenza minore, causarne il ridimensionamento o addirittura il fallimento.

Quali dunque i vantaggi?

La formazione (permanente) delle risorse umane è, innanzitutto, fondamentale per aumentare la competitività della propria azienda, sia in chiave difensiva, resistendo in un mondo globalizzato popolato da molti competitor, sia espansiva, riuscendo in tale contesto anche a crescere.

Lavoratori e collaboratori più preparati e competenti, specialmente su temi specifici, sono in grado di restituire performance migliori, commettendo meno errori, trovando soluzioni, condividendo il sapere e operando scelte corrette in tempi più rapidi. Con conseguente miglioramento sul business e sulla produttività.

Inoltre, ha risvolti positivi sulle singole persone che, sentendosi apprezzate, valorizzate, maggiormente partecipi al progetto, saranno anche più stimolate a impegnarsi. Con la non trascurabile incidenza sulla riduzione del cosiddetto turn over, cioè la volontà di cambiare azienda. Quest’ultimo è stato, per molto tempo, una falsa credenza di coloro che si opponevano alla formazione dei propri dipendenti, ovvero il timore che dopo l’investimento fatto, costoro avrebbero cercato lavoro in altre realtà.

Infine, l’accrescimento di un senso di soddisfazione e di riconoscenza ha benefici influssi anche sui rapporti con gli altri dipendenti e dunque, da ultimo, sull’organizzazione aziendale.

Il tema è decisivo all’interno delle aziende, in particolare in un tessuto produttivo come quello italiano composto da realtà medio-piccole che del binomio competenza/competitività devono farne un elemento imprescindibile nella costruzione delle proprie strategie di business.

Ad oggi, quella della formazione resta una questione con “luci e ombre”. Le percentuali di imprese che hanno compreso l’importanza dell’apprendimento sono aumentate – anche sulla spinta dell’Industria 4.0 – e sempre più lavoratori utilizzano tempo e risorse aziendali in attività di skilling o up-skilling. Attualmente, la quota di italiani (fra 18 e 74 anni) che hanno svolto un’attività formativa si attesta intorno al 40% (ISTAT). Una percentuale in crescita ma dagli ampi margini di miglioramento, soprattutto perché sotto di qualche punto rispetto alla media dei Paesi dell’Unione europea.

Un’altra “ombra” la rileva l’OCSE in un report pubblicato nel 2019, sottolineando la necessità di spingere più su un tipo di formazione in linea con i fabbisogni del mercato. E oggi questo significa dirigere l’attenzione a materie tecniche e scientifiche in grado di portare o di ri-allineare le conoscenze della forza lavoro con l’avanzare del progresso.

Infatti, se con l’arrivo del digitale il 15% dei posti di lavoro potrebbe essere automatizzato, un altro 35,5% verrà profondamente trasformato rispetto alla realtà che conosciamo. Un dato da tenere in considerazione soprattutto in Italia, dove la popolazione di lavoratori è fra le più anziane del mondo (3 su 10 hanno più di 65 anni).

Attualmente, poi il 30% delle attività di formazione finanziate da Fondi pubblici – la media europea è del 20% – sono incentrate su salute e sicurezza sul lavoro, mentre solo poco più del 3% si rivolgono all’insegnamento di competenze informatiche o tecniche, cioè di quelle discipline in cui si è maggiormente carenti.

Alla verticalità e alla specializzazione propria delle tech skill, va però affiancata anche un’offerta formativa interdisciplinare in grado di allargare l’orizzonte del lavoratore, fornendo strumenti cognitivi e trasferendo sapere utili in altri ambiti (ad esempio competenze gestionali o i cosiddetti soft skill).

Quali ostacoli, dunque, si frappongono al pieno e consapevole sviluppo di una formazione permanente? Fra i principali possiamo individuare:

• una diffusa mancanza di cultura aziendale che non vede nella formazione un elemento strategico in grado di portare importanti benefici al business
• la dimensione delle aziende che, nella necessità di rispondere all’urgenza del quotidiano, faticano a privarsi di un dipendente, anche temporaneamente
• la convinzione che l’investimento sul dipendente sia soprattutto un rischio e non un vantaggio, vista la possibilità che costui cambi lavoro una volta formato
• la scarsità di risorse monetarie.

Preoccupazioni comprensibili, ma che i benefici derivanti dalla presenza di lavoratori più preparati dissiperebbe in breve tempo.
Infatti, perché se si rinnovano le macchine, non si dovrebbe investire nell’aggiornamento formativo del capitale umano, fra i principali asset di un’azienda per decisività e (spesso) incidenza sui costi? (Lamborghini, 2020)

 

Fonte: www.bureausveritas.it